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In difesa del processo cancellato dall’Amuchina

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L’imputato non è necessariamente un delinquente professionale. Spesso neppure sapeva dell’esistenza del reato che gli viene contestato. Spesso non avrebbe voluto commetterlo. Talvolta i fatti si sono svolti in modo significativamente diverso da come gli vengono contestati o sono stati commessi da altri. Talvolta non sono accaduti per niente. In ogni caso, sempre, ogni imputato, ha almeno una buona ragione che l’accusa nel formulare l’imputazione ha ignorato.

Il ruolo del difensore è quello di cercare di portare a conoscenza del giudice le tante o poche buone ragioni dell’imputato.

Si tratta di un’operazione difficilissima: all’inizio del processo, l’imputato è innanzitutto un potenziale condannato: se si proclama innocente, non sarà creduto; se porterà dei testimoni a propria difesa, si sospetterà della loro credibilità. All’opposto, le prove a sostegno dell’accusa saranno ritenute attendibili, fino a prova contraria.

Per svolgere l’immane compito di ribaltare l’inerzia che spinge verso la condanna, l’imputato ha a disposizione soltanto due strumenti: il proprio difensore e il processo stesso. Il processo è innanzitutto un diritto dell’imputato. E l’arte antica della difesa ha messo a punto uno strabiliante e complesso armamentario per difendere nel processo. Contano la logica, la chiarezza, la semplicità, la conoscenza del diritto e del fatto. Ma conta anche altro: il tono della voce, un colpo di tosse, una battuta che strappi un sorriso; la passione. Conta perfino la postura. Un giudice di corte di assise una volta disse: sa come faccio io a capire se posso credere al difensore? Vi guardo negli occhi.

Niente di strano: le informazioni passano solo con le emozioni e la capacità di suscitare l’emozione del giudice è tutt’uno con la possibilità di fare emergere le ragioni dell’imputato. Per convincere il giudice il difensore deve infatti raggiungerne, almeno in una certa misura, l’animo. In un certo senso, il giudice deve essere sedotto dalle ragioni della difesa.

Avevamo un processo che consentiva tutto questo, basato su tre pilastri fondamentali pilastri: oralità, immediatezza, contraddittorio.

Da venerdì 24 aprile 2020, quando la Camera dei deputati ha esteso a tutti i processi la possibilità disporre l’udienza da remoto, tutto è finito.

Ognuno a casa propria, la voce filtrata da un microfono, miseramente ridotto nelle due dimensioni dello schermo. Un piccolo ammasso di pixel.

Processi virtuali a persone reali.

E difendere nel processo, ciò che ieri, in aula e con la toga sulle spalle, era difficile ma possibile, diventerà, semplicemente, impossibile. Provateci voi, se ci riuscite, ridotti nel riquadro di una web-cam. Il nostro processo, questa splendida esperienza un po’ teatrale, un po’ liturgica, è stata cancellata con un colpo di Amuchina.

Dicono che è stato fatto per consentire alla giustizia di ripartire subito. Sbagliato: non era necessario, perché la giustizia penale non produce bene di consumo, ma condanne, e le condanne devono essere giuste, non rapide.

Dicono che la riforma ha un termine e poi si ricomincerà come prima. Che il governo si è già impegnato a fare sostanziosi passi indietro. Quel che è certo è che intanto l’hanno fatta, ed ora è legge; poi si vedrà.

Non bastava la quarantena, col suo infinito strascico di drammi individuali e sociali, ci hanno tolto anche il processo.

avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini


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