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Perché a Milano non c’è una nuova Tangentopoli

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Lo dicono nei corridoi alcuni cronisti e  magistrati di più lunga memoria, lo ha sostenuto Luigi Di Maio. “A Milano è in corso una nuova tangentopoli”. Ma è proprio così?

Certo l’attività tra il quarto, il quinto e il sesto piano del Palazzo di Giustizia è febbrile. Gente che entra ed esce in continuazione dagli uffici dei 4 pubblici ministeri impegnati nell’inchiesta che ha portato all’arresto di due uomini di Forza Italia (Fabio Altitonante e Pietro Tatarella), alla richiesta di domiciliari per un altro (Diego Sozzani), all’iscrizione nel registro nel registro degli indagati dell’eurodeputata azzurra Lara Comi, del Presidente della Regione Lombardia, il leghista Attilio Fontana, e del vertice della Confindustria lombarda, Marco Bonometti. Le notizie escono dalle stanze dei magistrati con una certa facilità, forse anche, come accadeva nel 1992, per creare un clima che invita chi sa di avere qualcosa da chiarire a presentarsi in Procura. In effetti, sono numerosi gli imprenditori che sono corsi a farsi ascoltare. Qualcuno, entrato come testimone, ne è uscito da indagato, ma certo con una posizione più ‘leggera’ che se non fosse andato di sua spontanea volontà a raccontare quel che sa. Addirittura c’è un nome in comune tra le carte ingiallite della vecchia tangentopoli e quelle fresche dell’inchiesta ‘Mensa dei poveri’, così definivano gli indagati il ristorante Berti di Milano, vera tappa per gourmand a dispetto dell’umile definizione e punto strategico, a due passi dalla  Regione, indicato come sede dei presunti intrallazzi. E’ quello dell’allora socialista Loris Zaffra, fedelissimo di Bettino Craxi, che però qui non è indagato ma solo citato in qualche intercettazione. 

Eppure gli albori della Tangentopoli che  travolse la nuova Repubblica  (25400 avvisi di garanzia, oltre 4500 arresti) appaiono diversi, sotto diversi aspetti, da quelli di questa indagine degli anni duemila a cui per contiguità territoriale può essere affiancata quella che ha portato la Procura di Busto Arsizio all’arresto di mezza giunta leghista di Legnano. 

E’ molto differente il contesto politico. Allora c’era un  sistema che stava finendo, era caduto il Muro di Berlino cancellando nelle urne la pregiudiziale contro i comunisti: gli elettori sapevano che avrebbero potuto non votare più il blocco dei ‘partiti di sistema’, come la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Ora al governo c’è un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha fatto del grido ‘Onestà, onestà’ il suo motto e un altro, la Lega, il cui leader Matteo Salvini, non perde occasione per sottolineare di essere contro i ‘poteri forti’, pur essendo alla guida del Paese. 

Altro elemento peculiare della nuova indagine è che gli ipotizzati finanziamenti illeciti qui non sono destinati ai partiti, come accertò il pool Di Pietro – Borrelli – Colombo – Davigo, ma ai singoli politici, come Altitonante e Tatarella. Non ai segretari dei maggiori partiti con la complicità dei tesorieri come accadde negli anni Novanta. 

L’entità delle somme di denaro delle presunte corruzioni è davvero bassa. La prima tangente, quella da 7 milioni consegnata a Mario Chiesa nel suo ufficio del Pio Albergo Triulzio, era una cifra enorme rispetto alle poche  migliaia di euro a cui si fa riferimento nelle ipotesi accusatorie dei pm di Milano e Busto.  Emergono invece piccoli favori personali, come la sistemazione della sorella nel caso dell’assessore al commercio di Cassano Magnago (Varese) che avrebbe consegnato al politico di Forza Italia Gioacchino Caianiello una busta da 5mila euro, spiegando in un’intercettazione che si tratta della “decima parte” dell’incarico ottenuto dalla sorella in una società pubblica.

Ora, sempre stando agli schemi tracciati dalle Procure tutti ancora da accertare con sentenze, il movimento della corruzione va dal politico all’imprenditore e non viceversa. All’epoca di tangentopoli, la politica aveva ben altro nerbo e chi voleva accaparrarsi appalti e affari andava a cercare scorciatoie dai politici. Qui gli imprenditori sembrano impegnati a  ‘coltivarsi’ politici di non alto livello, come nel caso dell’arrestato Daniele D’Alfonso, che sarebbe arrivato a pagare le ferie a Tatarella (“Minchia, questo preleva come un toro”, si indigna in un’intercettazione mentre il forzista è in vacanza in Sardegna) per ricevere ‘scorciatoie’ nella sua attività nel settore delle bonifiche ambientali. 

In tangentopoli, a parte in Sicilia, la mafia non compariva negli episodi di corruzione contestati dalle procure. Qui abbiamo uno dei personaggi cardine dell’indagine, D’Alfonso, a cui viene addebitata l’aggravante mafiosa perché avrebbe messo a disposizione gli appalti vinti in modo illecito a uomini e mezzi del clan ‘ndranghetista dei Molluso. Anche se l’indagine, con l’assegnazione alla Dda, nasce da accertamenti sull’imprenditore Renato Napoli, che, citato in alcune informative di operazioni sulla ‘ndrangheta, in realtà non è mai stato condannato per mafia e giustamente lo rivendica attraverso il suo difensore.     

L’uso del carcere sembra più moderato. Delle 72 misure cautelari chieste a Milano ne sono state concesse dal gip solo 43 e molte sono ‘obblighi di firma alla polizia giudiziaria’.  Due sue tre degli arrestati a Legnano sono ai domiciliari. Tangentopoli è stata la stagione della prigione preventiva, con una lunga scia di suicidi che ha portato, a distanza di anni, a una profonda riflessione anche da parte di uno dei magistrati del pool Gherardo Colombo, che oggi porta nella scuole la sua idea di inutilità del carcere stimolando a una svolta culturale contro la corruzione e ha dichiarato pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera: “La politica è meno colpevole del cittadino”. (manuela d’alessandro)


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