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“Giudici in crisi quando danno l’ergastolo”, i 40 anni in Assise della cancelliera

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Quarant’anni nel palazzo di giustizia di Milano. Trenta di questi, in Corte d’assise, a contatto ogni giorno con gli aspetti più violenti dell’animo umano. Centinaia di processi, e solo una volta la cancelliera Flavia Fabi si è commossa: quando sul banco degli imputati si è trovata davanti Marco Cappato, il  radicale accusato di avere aiutato a morire Dj Fabo. Davanti ai filmati di Fabo e alle testimonianza strazianti dei suoi familiari, gli occhi di Flavia si sono riempiti di lacrime. Ma in quell’aula erano pochi gli occhi asciutti.

 

Ora Flavia Fabi gira pagina. Va in pensione, a 66 anni di età compiuti da poco. Si porta dietro una miniera di ricordi: facce, storie, processi che attraversano ere diverse della giustizia milanese raccontati dal punto di vista particolare di un cancelliere. Dal suo banco, silenziosa e insostituibile, non si perdeva una parola.

 

Come sei arrivata alla cancelleria dell’Assise?

“Per caso. Sono milanese, dopo avere vinto il concorso sono arrivata subito qui a Palazzo di giustizia. Dopo una decina d’anni si è creato un problema in Assise perché un collega si era ammalato e l’ho sostituito per un processo. Poco dopo il cancelliere della Seconda sezione, Pillerio Plastina, ha superato gli esami per diventare avvocato e si è dimesso. Così ho preso il suo posto”.

In tribunale di storie allegre ne approdano poche, ma in Assise si sente il peggio. Non ti è pesato passare tutti questi anni in mezzo a tragedie di ogni tipo?

“Niente affatto. Non posso dire che mi staccavo da quanto accadeva in aula, perché comunque ti rendi conto di quanto è in gioco davanti a te. Ma sai di essere un’altra cosa rispetto a quanto sta succedendo e di avere un tuo ruolo da svolgere. Io mi concentravo sul mio ruolo anche se questo non mi impediva di essere coinvolta dal processo: a partire dal rapporto con l’imputato. All’inizio del processo partivo sempre critica, prevenuta; mi dicevo che questo signore se era in gabbia qualcosa doveva avere fatto. Poi nel corso del processo, mentre le udienze vanno avanti, ti fai delle convinzioni diverse. Oltretutto io mi sono sempre letta le carte dei processi a cui dovevo lavorare, sia per interesse personale sia perché sapere bene di cosa si parla torna comodo all’ufficio. In questo modo inevitabilmente una idea te la fai”.

Hai mai visto condannare un imputato che consideravi innocente?

“No”.

E assolvere uno che per te era colpevole?

“Nemmeno. Dal mio punto di osservazione, mi sento di dire che la giustizia funziona”.

In Corte d’assise oltre che con i giudici di professione hai a che fare anche con i giudici popolari, i cosiddetti giurati. Che tipi sono? Che ruolo svolgono davvero nel chiuso della camera di consiglio?

“Inizialmente sono tutti un po’ sbalestrati, perché tutto comincia con la polizia che arriva a casa loro ad avvisarli che sono stati scelti per fare parte della Corte: ma a volte la cosa avviene in modo un po’ brusco, e prima di capire che la polizia è lì solo per quello ci mettono un po’… Dopodiché cominciano a entrare nella parte. Una volta erano molto sprovveduti, bisognava spiegar loro tutto. Adesso invece appena realizzano cosa li attende vanno su Google, si documentano, si studiano le leggi, e arrivano alla prima riunione già abbastanza pronti. Almeno dal punto di vista tecnico, intendo. Non sono pronti a affrontare l’aspetto emotivo del processo, il suo carico di responsabilità. Così accade che giudici popolari che arrivano da noi dicendo “ci vorrebbe la pena di morte”, poi cambiano, e quando bisogna decidere la sentenza e magari condannare l’imputato all’ergastolo vanno in crisi, non se la sentono, e al momento del verdetto si commuovono. Ma devo dire che anche i giudici effettivi sentono il peso della responsabilità. Al processo per l’uccisione di un tassista anche il giudice che leggeva  il dispositivo si commosse, perché si era reso conto che se uno degli imputati aveva avuto un ruolo da leader gli altri gli erano più che altro andati dietro. Erano colpevoli, ma anche vittime delle circostanze”.

Cosa accade in camera di consiglio? I giurati si fanno valere, o seguono le indicazioni dei due giudici effettivi?

“Ci sono Corti piatte piatte, che non si discostano dalle indicazioni dei giudici. Ma anche Corti con una dialettica interna vivace, in cui i giudici popolari non rinunciano a fare sentire la loro voce. Non ho mai visto i giudici di mestiere messi in minoranza sulla questione principale, la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Ma al momento di quantificare la pena è accaduto che i giudici popolari imponessero la loro linea”.

Tranne che per Cappato non ti sei mai commossa. Ma ti è accaduto di provare orrore?

“Sicuro. Il processo a un giovane che aveva ammazzato la madre e l’aveva fatta a pezzi non lo dimenticherò facilmente. La fidanzata era in casa e non ha capito niente di quello che stava succedendo…Oltretutto lui era recidivo!”

E’ giusto che esista la pena dell’ergastolo?

“Sì, anche perché non è quasi mai effettivo”.

Quanto conta in Corte d’assise la figura del presidente?

“Moltissimo. Io ho avuto la fortuna di lavorare accanto a presidenti di grande levatura. Il primo fu Antonino Cusumano, era l’epoca dei processi ai terroristi, in aula il clima era pesante, spesso i giurati avevano paura fisica; ma Cusumano riusciva a condurre il processo con polso e anche con umanità, riuscendo anche a dialogare con gli imputati. E non era facile”

Il più tosto?

“Renato Samek Lodovici”

La giustizia funziona meglio per i ricchi, che si possono permettere gli avvocati più bravi?

“No. E’ brutto dirlo, ma l’avvocato non ha un peso determinante sulla vicenda processuale”

E il pubblico ministero, quanto conta?

“Molto. Sia nella chiarezza della relazione introduttiva, che si usava una volta, sia nella gestione degli interrogatori dei testimoni. Non tutti sono bravi allo stesso modo, e le giovani generazioni non sono all’altezza di quelle che le hanno precedute. Di pm come Alberto Nobili e Armando Spataro non ne fanno più”.


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